Siamo agli inizi del Sessanta quando la Serie A aveva solo due-tre pretendenti allo scudetto, soprattutto il brand Simmenthal, una squadra che sfoggiava tute di raso, la Wanda Osiris dello sport, la cui popolarità con giocatori che venivano scritturati anche per fare del cinema, vampirizzava la famosa carne in scatola. E stava esplodendo la rampante Ignis degli Zorzi, Gatti, Nesti, la prima provinciale a conquistare lo scudetto.
Ma per contro, c’erano almeno 5-6 veri maestri di gioco, inventori di basket, autodidatti, non copisti spudorati, come più tardi. E anche in alcuni dei migliori giocatori, pur senza avere un filo diretto con gli Stati Uniti, mondo allora oltre le colonne d’Ercole, c’era il piacere di sentirsi un po’ scienziati e artefici del progresso. Alcuni di loro sono diventati ottimi allenatori-caposcuola, alcuni hanno cercato ostinamente la fortuna e la ribalta e ce l’hanno fatta quando l’onda materialista s’è sollevata impetuosa con gli sponsor, gli stranieri e la Tv, altri invece si sono sentiti paghi del loro sperimentalismo spirituale che via via diventata un linguaggio anacronistico col crescere improvvisamente degli interessi in materia proporzionale.
Il destino ha voluto che Giomo venga ricordato come un play con la lampadina nel cervello (“man d’oro e fosforo innato”, così l’ha ricordato Spinetti la maglia n.10 più famosa di quell’epoca con i colori della Stella Azzurra ) quando giovane di belle speranze vinse il suo primo e unico scudetto nel Simmenthal (maglia n.11) per spostarsi a Bologna e diventare il protagonista di una piazza dal palato fine. Al punto di dividersi, i tfosi, fra le sue finezze tecniche l’istrionismo del Dado. C’erano i Giomiani e i Lombardiani, la rivalità costava magari il tricolore ma era una squadra sanguigna, da contropotere, e quel pubblico era come quello del loggione alla Scala o del Regio a Parma.
Giomo era stato reclutato nella Marca veneta dal presidente Bogoncelli, il padre trevigiano dell’Olimpia Milano, e dal suo braccio armato Rubini a volte Principe a volte Brancaleone grandioso come quello di Monicelli e Gassman.
Non era il trevigiano da bosco e da riviera, il ruspante, un “Razza Piave” , locuzione venuta di moda ai tempi di Nereo Rocco, anche lui di quelle terre, per descrivere l’atleta forte e semplice intagliato con l’accetta. Con quel nome richiamante l’illuminato imperatore romano, Augusto non poteva che scegliersi un destino da professore. La sua figura e l’aplomb richiamavano più l’allievo di Harvard o Princeton. S’è sempre capito che il genio era dentro di lui, forse non ha cercato però abbastanza il successo come altri colleghi forse il successo non ha cercato lui. O forse l’atleta è stato troppo tormentato da un mal di schiena che gli ha alterato il metabolismo e la figura e accorciato la carriera. O forse ancora chissà… La sua intelligenza raffinata, attestata da una dppia laurea, la prima in fisica e l’altra attinente allo sport e gli studi sulle dinamiche mentali che nella sua epoca erano guardate sospetto ignorante, spaventavano interlocutori più terra a terra. E lui, a sua volta, si teneva lontano dal banale.
L’ha incontrato l’utima volta a maggio alla Sala Borsa di Bologna per una giornata speciale della Meglio Gioventù del basket nel santuario storico della Dotta nutrice di queso sport. Mi sorprese rivederlo in un clima da raduno degi Alpini, lo salutai con molta deferenza ricordandogli che luis sarebe passato alla storia del basket come il Prometeo del bel basket, ma anche per essere l’unico a giocare in Serie A e ad allenare una squadra giovanile portandola allo scudetto. “E come fai a saperlo?” rispose. “L’ho scritto nell’Enciclopedia del Basket che ho scritto per la Fabbri Editore e ti dico anche sei stato il primo a usare la zona-pressing i im McGregor, vero?”. Un amico mi ha strappato quel breve colloquio, ma mi immagino la risposta, lo ricordo così per ringraziarlo di aver esplorato nuovi sentieri sperando che ci siano al giorno d’oggi figure simili di innovatori ostinati e acculturati, senza i quali il basket italiano, di questo passo, potrebbe essere straniero in patria. Magari più ricco, ma più povero come innovazione e personalità.
Per la sua carriera rimando a Wikipedia per lo scorrere della sua carriera, per un ricordo più profondo invece è giusto dare la parola a Giorgio Buzzavo che è stato suo allievo, come Renato Villalta, arrivando a loro vota alla Virtus. Sicuramente Buzzavo ha tratto un esempio dalla lezione sportiva e umana di Augusto Giomo, il più noto e il maggore di due titolati fratelli cestisti ad aver vinto lo scudetto con l’Olimpia, per vincere ben 60 trofei come “ad” di Verdesport Benetton nella sua ventennale carriera, col lancio di Bargnani nella NBA e il primo club europeo come produzioe di giocatori e allenatori (D’Antoni, Messina, Del Negro).
“Con Gianni ho giocato un anno assieme ed è stato mio allenatore per tre anni. È sempre stato avanti anni luce, forse troppo avanti nello studio del basket quasi da farlo pensare ad un matto. Dopo un ictus o ischemia si è trascinato e sofferente e per più di 10 anni regolarmente passava tutti i pomeriggi a guardare e studiare i nostri ragazzini. Eterne discussioni di ore e ore su come si insegnano i fondamentali, sul comportamento che bisogna tenere con gli atleti e sul basket moderno che non esplodeva. Era un grande perfezionista, fin da giovane era un leader incontrastato in quanto eseguiva tutti gli esercizi in modo impeccabile e insegnava agli altri come eseguirli. Carattere taciturno e si apriva solo con gli amici. Mi ricordo anche le discussioni con Bortoletto, suo primo allenatore e poi presidente del nostro club : per fortuna finivano sempre con un bicchiere di vino in mano”.
A cura di Enrico Campana