Quell’unica volta che gli Azzurri giocarono in Bosnia era novembre, una partita simbolica, in cui non contava il risultato, trattandosi di un’amichevole della squadra allora guidata da Arrigo Sacchi, che proprio lì chiuse la sua avventura da commissario tecnico.
Quella partita storica si disputò a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, città che nei suoi musei ricorda la storia locale che la rese famosa per l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914, fatto che scatenò la Prima guerra mondiale, ma la città divenne anche famosa per la guerra dei Balcani che la vide triste protagonista del più lungo assedio nella storia bellica della fine del XX secolo, protrattosi dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996.
Tornando al calcio giocato, quel match del 6 novembre 1996, fu la prima partita casalinga della storia della nazionale della Bosnia, che sconfisse l’Italia di Sacchi per 2-1, dopo cui arrivò l’esonero per il tecnico di Fusignano. Tanto fu l’entusiasmo per quella vittoria per il popolo bosniaco che si stava risollevando da anni di guerra, una città devastata, distrutta in ogni angolo con le immagini degli attacchi incendiari e delle bombe che facevano il giro del mondo. Era una città e un popolo che cercavano di rimettersi in piedi.
Dal punto di vista sportivo, anche l’Italia calcistica era da ricostruire, dopo l’eliminazione dall’Euro 1996 Sacchi al primo turno, ma l’allenatore romagnolo era alla guida di una squadra nazionale “sub judice”, come se al primo passo falso sarebbe stato esonerato.
La fortuna aveva voltato le spalle a Sacchi, prima i rigori sbagliati di Baggio, Baresi e Massaro nella finale mondiale contro il Brasile, poi quello decisivo fallito da Zola contro la Germania all’Europeo. A cui aggiungere, poi, l’incredibile pareggio della Nocerina in Coppa Italia contro la Juventus, che impose il replay con diversi bianconeri che non poterono raggiungere la Nazionale per disputare la gara contro la Bosnia, al punto che Sacchi dovette ricorrere a far convocare altri due esordienti come Federico Giunti del Perugia e Pasquale Padalino della Fiorentina.
La rappresentativa azzurra come atterrata a Sarajevo si rese subito conto appena scesi dall’aereo delle atrocità vissute in quella città, guardando un angolo dell’aeroporto trasformato in un cimitero.
Ad accogliere in terra bosniaca quell’Italia c’era Michael Giffoni, giovane vicario del Capo Missione all’Ambasciata d’Italia a Sarajevo, da poco elevata a livello di vera e propria Ambasciata dopo aver funzionato fin dal 1993 come Delegazione Diplomatica Speciale, che in esclusiva per i lettori di Sportal.it ha ci ha fatto partecipe dei suoi ricordi di quella due giorni con gli azzurri, dove il “il risultato era l’ultima cosa, il vero obbiettivo era il segnale di pace, il messaggio che abbiamo portato, insieme a un po’ di allegria per questa gente. Da questa trasferta ho imparato tante cose, bastava guardarsi intorno per riflettere” come commentò all’epoca l’attaccante Gianfranco Zola.
Michael Giffoni, cosa colpì l’attenzione degli azzurri al loro arrivo?
“Ricordo l’arrivo degli Azzurri all’Hotel Holiday Inn, il pomeriggio del 5 novembre, nel palazzone di stampo socialista che portava nelle facciate i segni dei bombardamenti, come fossero ferite nella carne viva, ci fu l’impressione immediata di stupore e dolore insieme, in tanti calciatori, primi tra tutti il capitano Paolo Maldini, Dino Baggio e Enrico Chiesa”.
Quale fu la reazione dei calciatori?
“E fu proprio Paolo Maldini a chiedere a noi diplomatici, militari e ai propri dirigenti di cambiare il programma della serata per uscire, per vedere quel posto diventato il simbolo della prima guerra in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale e parlare con la popolazione, per capire quello che lì era successo davvero e quindi mostrare una vera partecipazione, una vera solidarietà”.
Cosa le disse il capitano azzurro?
“Ricordo ancora le sue parole rotte dall’emozione: <> Così, fu deciso rapidamente un cambio di programma e organizzammo in pochi minuti una visita ai bambini e ragazzi ricoverati nell’Ospedale Pediatrico di Kosevo (poco distante dallo Stadio in cui giocarono il giorno successivo la partita contro la nazionale bosniaca) alcuni mutilati dalle mine che allora infestavano le aree a ridosso di quella che era stata linea di demarcazione del fronte”.
Quale fu la loro reazione nell’incontrare le persone vittime delle atrocità della guerra?
“Non dimenticherò mai la commozione negli occhi dei dirigenti e dei calciatori della Nazionale, ma anche la determinazione nel chiedere ai tanti piccoli degenti e ai pochissimi medici e infermieri le loro storie, il silenzio pieno di stupore e di dolorosa partecipazione mentre tali storie ascoltavano con la difficoltà, quasi si provasse vergogna, nel trovare le parole per rispondere, che facevano fatica a uscire. E non riuscivano più a staccarsi da quei bambini e da quei medici così che i funzionari della neonata Federcalcio bosniaca e i calciatori dovettero aspettarli per più di un’ora all’Holiday Inn per la prevista cena ufficiale…
Ci fu un momento che le è rimasto particolarmente impresso nella memoria?
“A me è rimasto impresso l’abbraccio che mi diedero gli azzurri Maldini e Dino Baggio una volta usciti dall’ospedale, e la frase sussurrata da quest’ultimo: <>”.
Della partita invece cosa ricorda?
“La partita fu giocata alle 13.30 perché a novembre fa buio presto e mancava l’illuminazione sul campo sportivo come nelle strade, lo stadio aveva una vista sul cimitero del Kosevo, pieno di migliaia di tombe di caduti sepolti in fretta per evitare i cecchini. La partita fu bruttina, ma la giovane squadra bosniaca, nettamente inferiore sul piano tecnico, riuscì a vincere per 2-1 tirando solo due volte in porta: il primo gol fu di Salihamidzic, all’epoca diciannovenne, che poi giocò nel corso della sua carriera in Germania con il Bayern Monaco e in Italia con la Juventus”.
Un risultato negativo per gli Azzurri … soprattutto Sacchi, vero?
“Si, ma il risultato non contava, lo avevano detto Zola e Paolo Maldini e ripetuto tanti altri giocatori”.
Ma per Sacchi quella sconfitta contro la Bosnia contò moltissimo: l’Italia scese subito dal quinto al nono posto della classifica Fifa, decretando la fine dell’avventura di Arrigo Sacchi nel ruolo di Commissario Tecnico della Nazionale. Le strade si separarono ufficialmente ai primi di dicembre, quando il tecnico romagnolo si dimise per tornare ad allenare il Milan, dopo l’esonero di Tabarez. Ma quella sconfitta contro la Bosnia segnò la parabola discendente di Sacchi, che proseguì con l’imminente eliminazione del Milan per mani del Rosenborg dalla Champions League (bastava un pareggio) e un deludente undicesimo posto in campionato, per concludersi con l’esonero dalla panchina dell’Atletico Madrid nella stagione seguente.