Ci sono pochi episodi nella storia che cambiano il destino di un intero popolo. E l’eccezionalità di tali episodi si trasforma quasi in unicità quando la storia compie il suo percorso durante un evento sportivo.
E’ quanto si consumò ventitré anni fa tra il muro che divide il fiume Santerno dalla curva del Tamburello del circuito ‘Enzo e Dino Ferrari‘ di Imola e il Reparto Rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Bologna. E’ lì che – il primo maggio del 1994 – trovò la morte Ayrton Senna. Più di un pilota, più di un eroe per il Brasile. Il volto, la testa, i piedi, i muscoli e il cuore di un Paese che mentre il XX secolo volgeva al suo tramonto era assetato di riscatto e vedeva in quegli occhi tristi e pieni di determinazione il suo figlio prediletto.
Senna si era costruito il suo riscatto a costo di tante fatiche e rinunce, da quando aveva detto di no a una vita agiata nella sua San Paolo per costruirsi una carriera piena di incognite nella gelida Gran Bretagna, senza l’approvazione del padre. Lo stesso padre che gli aveva messo in mano il destino, regalandogli un go kart quando il piccolo Ayrton a stento sapeva camminare.
Da lì era stata una lunga corsa verso l’alto. Con la feroce ambizione di diventare il numero uno. Senna, per esempio, odiava guidare sotto la pioggia e odiava il fatto che il suo collega Fullerton – ai tempi dei kart – andasse più forte di lui sotto l’acqua. Si allenò tanto da diventare il migliore di tutti quando le condizioni climatiche si facevano impraticabili. Chiedere a chi, a Donington 1993, perse la bussola tra infiniti cambi di pneumatici mentre quel casco giallo dentro una McLaren che imbattibile più non era guardava in una sola direzione: in avanti.
In avanti dove, lo stesso casco giallo, guardava a Montecarlo nel 1984. Era all’interno di una Toleman, una macchina che poco più di un anno dopo non sarebbe più esistita. Ma che con Senna a bordo sfidò gli eroi dell’epoca e li avrebbe battuti, se la politica (uno dei peggiori nemici di tutta la sua carriera) non si fosse messa di mezzo.
Senna rappresentava l’eroe solitario, l’uomo che vince contro il sistema, contro gli avversari e contro i suoi limiti. Guidato (perché no?) da quel senso mistico che lo pervase a Montecarlo 1988, dopo un erroraccio che gli costò la corsa (e – a posteriori – un pazzesco filotto di sette vittorie di fila al Principato). Senna quando si metteva al volante non si sentiva solo, si sentiva addosso una luce che lo accompagnava. E continuava la sua corsa, sempre verso l’alto.
Proprio quella luce si spense a Imola, nel Gran Premio di San Marino che gli fu fatale. Ma non alle 14.17, alla curva del Tamburello. Il giorno prima, quando la corsa di Roland Ratzenberger si interruppe alla curva Villeneuve. Gli occhi di Ayrton cambiarono proprio in quel momento. Prima del via della gara, domenica, aveva brutti pensieri. Glielo si leggeva in faccia. Una faccia che aveva affrontato e superato la rivalità sprezzante del connazionale Piquet, l’intelligenza di Prost, i muscoli di Mansell. Ma che sotto il sole emiliano, per una volta, erano bassi.
Poi al quinto giro di una domenica stregata, il botto. Il punto era lo stesso nel quale il suo amico Gerhard Berger era sopravvissuto a un incendio cinque anni prima. La dottoressa Maria Teresa Fiandri che lo curò disse: “Bastava che l’impatto avvenisse un palmo più a destra e sarebbe tornato ai box a piedi”.
Come se la sua missione fosse finita. E quel giorno la vita dei brasiliani cambiò. La settimana successiva fu di lutto per quasi 200 milioni di persone.
Era un popolo che aveva perso l’uomo che lo rappresentava. E che era arrivato, finalmente, in alto. Proprio dove i suoi occhi avevano sempre mirato.