L’estroversa Mamma Wanda fasciata in un tailleur scuro sotto un giubbino jeans, troppo stretto per contenere le curve giunoniche, tirava schiaffetti scherzosi al petto del suo adorato Kevin. E regalava grandi sorrisi a tutti aspettando il momento della premiazione poco distante dal commissioner e dal leggendario Bill Russel cui è intitolato il trofeo del MVP di The Finals. Sembrava voler porre attenzione sull’autore di quell’umano capolavoro con queste parole immaginarie possibili per un fumetto di un cartoon: “sapete, quella statua l’ho fatta io?. Gli ho dato la parola, la buona educazione e naturalmente le mani magiche”.
Dopo il secondo titolo dei Warriors -in un ciclo di tre anni dominando la regular season con oltre 200 vittorie, come nessuno prima aveva fatto- , aspettando la consegna del trofeo di MVP delle finali, Kevin Durant che ha dato il suo contributo al trionfo dilatando le sue medie inevitabilmente sui 35 punti (come il suo numero di maglia), nell’occasione 39 punti con 14 canestri su 20, ha abbracciato e baciata la Wanda Osiris fra tutte le famose moms BA… Un quadretto che si ripete dall’infanzia, solo che ora Kevin misura oltre 2 metri e 10, si deve abbassare per le coccole non sentendosi però minimamente a disagio nei panni dell’eterno bambinone. Che adesso ha coronato il suo sogno (“mamma, tu sai che da quando avevo 8 anni aspettavo questo momento”, l’ha ringraziata attraverso il microfono) e conquistato il titolo della NBA.
Tanto forte dentro grazie a quell’innocenza invidiabile, non corrosa dagli enormi guadagni, dai titoli e le vittorie internazionali, il mondiale e il bis mondiale e poi il doppio oro olimpico, l’ultimo a Rio col titolo di MVP e 37 punti nella finale, gli infortuni e le operazioni al piede, la brutta reazione emotiva di Oklahoma quando la sua maglia-feticcio, venne svenduta l’estate scorsa per pochi centesimi da parte dei tifosi delusi. Tanto forte da non avvertire in queste finali il minimo cedimento psicologico nei confronti delle arti nere di LeBron James che in gara4 aveva cominciato a recitare la parte del grande stregone woodoo per sgretolare le certezze dei rivali, cercando di far rivivere i fantasmi della finale dello scorso anno coi quali Curry, Raymond Green e Klay Thompson hanno lottato per l’intera stagione.
I Warriors, anzi i super-Warriors da Guinness e da spettacolo, virtù che poco trionfano spesso nelle atmosfere aspre dei playoff, avevano bisogno dell’esorcista Durant – e lui di una squadra !…- per riuscire nell’impresa fallita nei primi anni di Oklahoma . L’operazione di riconquistare l’anello, gettato alle ortiche dai Warriors l’anno scorso sull’3/1, semplificata con un ingaggio molto controverso, con l’accusa generale di manifesto duopolioche in grado di uccidere l’interesse per la stagione, ma anche il rischio di un rigetto all’interno di una squadra particolare, versata al tiro, già vincitrice di un titolo, come quella degli Splash Brothers, è andata nella direzione giusta. E l’ha coronata proprio Durant, superando un brutto infortunio, e il ritorno in campo alla vigila dei playoff. Era scritta nelle stelle, ma cosa sarebbe successo se “KD” avesse mostrato il minimo cedimento in queste 5 gare nelle quali ha segnato 178 punti, battendo il record di Allen Iverson del 2001, col 35,2 punti di media, il 55 per cento al tiro, il 47,5 da 3 punti, 8,4 rimbalzi, 5,4 assist, 1,8 stoppate?. Ma messo alla prova non ha ceduto di un millimetro davanti alle stregonerie del Magiafuoco-Lebron e c’è un’azione emblematica di questo suo trionfo personale. Se in gara3 nella quale ha segnato 14 punti nell’ultimo quarto, non si fosse preso la responsabilità di quella tripla vincente del 3/0 dopo aver guardato negli occhi il rivale per dire, “stavolta vinco io”, le cose sarebbero forse andate diversamente
Le prime dichiarazioni, pochi istanti prima di salire sul palco per afferrare i trofei, prova intangibile di una conquista che diventa storia e rimane negli albi d’oro e nella letteratura sportiva, sono difatti di rispetto per LeBron James, il suo antagonista principale nei trascorsi cinque anni, dalla finale persa del 2012 contro Miami, che il kid di Washington-Georgetown, eccezionalmente equilibrato, senza scandali, amorazzi, erbe magiche, divismi, ha inseguito con l’ostinazione e il pass felpato di un bounty-killer.
“Lui LeBron – si legge nel report degli inviati di Sky sulla Tv che consacra la NBA – è l’unico che ho osservato dal 2012 a oggi, l’unico che poteva guardarmi negli occhi e potevo considerare un rivale al mio pari . Sapevo che sarebbe stata una battaglia e LeBron ha dimostrato ancora una volta il suo valore, viaggiando a una dannata tripla doppia di media. Non si può fermare un giocatore del genere; l’unico modo è provare a rispondere colpo su colpo. Gli ho detto che adesso siamo pari e che cercheremo di ritrovarci di nuovo in finale, ma adesso è soltanto il momento di festeggiare”.
Alla giornalista che l’ha intervistato dopo aver ricevuto il trofeo -sotto un diluvio di applausi per aver regalato un gesto naturale, di stile profetico o papale, allargando le braccia per dividere la gioia con la comunità – ha dato una risposta succosa, non retorica in linea col suo pensiero-mantra espresso per tutta la stagione: vincere o perdere non importa, se la scelta fa parte di una convinzione giusta. I trofei individuali anche se copiosi, evaporano ,”L’unica cosa che conta in uno sport di squadra è vincere il titolo”, ha ammonito.
C’è stata però anche una partita, non facile da vincere per i Warriors dopo il risveglio preoccupante dei feroci Cavs in gara3. Difatti sono partiti lancia in resta a Oakland – dove le squadre delle leghe pro non vincono mai i titoli in casa – segnando 37 punti nel primo quarto. Sembrava un brutto presagio ripensando alle due sconfitte casalinghe dell’ultima finale sul 3/1, invece la reazione della squadra di coach Kerry nel secondo quarto è stata fulminante e paradossalmente scatenata anche dal 3° fallo di Durant che il pubblico non ha gradito. Da -5 a +10 con un parziale di 38-23 che ha dimostrato anche la solidità della difesa e dei nervi. I Cavs però ci hanno riprovato con + 6 nel terzo tempo (27-33) ma hanno avuto in una serata-no di Klay Thompson lo stesso Iguodala del titolo di due anni fa, quando vinse il trofeo di MVP della finale.
L’ex star dei 76ers e Denver e vincitore dell’oro di Londra ha segnato 20 punti, MVP fra le riserve . Quelle dei Cavs insistenti, soli 7 punti di cui 4 di Jefferson e 3 di Korver e un doppio zero di Daron Williams ormai alla frutta e di Imam Shumpert. Forse qualche rotazione avrebbe giovato all’economia di squadra, ma Tyrron Lue non ha osato cambiare marcia considerando di vincere con la buona gara di Tristan Thompson (15 punti) e JR Smith micidiale da 3 (7/8) che ha compensato la mira oscillante di Irving (9/22, 1/2 da 3) e di Love (0/3).
Per i Warriors, lievemente migliori rispetto ai Cavs nei rimbalzi (42-40) e negli assist (27-22), Durant immenso, supersonico al tiro, mentre le percentuali nel tiro dei compagni dal campo e dall’arco sono stati inferiori. Ma non dalla lunetta, con 8 preziosissimi canestri in più degli ex campioni, la differenza nel punteggio, i quali hanno ottenuto un modesto 65 per cento determinato anche dall’insolito 1/4 di LeBron.Nervosissimo tanto da cercare spesso l’arbitro per lamentarsi, come nel caso della sua schiacciata sul capo di Durant chiedendo fallo, mentre il replay ha mostrato la validità della decisione.
I Cavs non hanno nulla da rimproversarsi, specie pensando a certi periodi sonnolenti della stagione e il regalo fatto a Boston di lasciargli vincere la regular season all’Est e fortunati in maniera sfacciata nel batterli nella finale di Conference grazie all’infortunio letale di Isaiah Thomas. In ogni caso dopo aver vinto la gara della serie col maggior punteggio (137) e scarto (21 punti) hanno dato prova di vitalità e d’orgoglio, 41 per LeBron e per la prima volta per 3 volte una doppia-tripla nella serie, un record per la NBA in una finale. Ma non si vince un titolo NBA senza cercare fra le riserve la mossa del cavallo. Non sono un grande estimatore di Tyrron Lue che si è preso dei meriti che erano di David Blatt e capisce perfettamente che è meglio arrivare secondo stando al dettato di LeBron che andare a toccare le gerarchie e rischiare di trovarsi senza lavoro. Fanno riflettere le 5 finali perse di LeBron fra Miami e Cleveland e i margini di progresso e il talento dei Warriors, entrati nella storia con un centro titolare che non segna nemmeno un canestro, non ha il fisico del ruolo e viene dalla lontana Georgia (l’ex repubblica Urss, non il Coca-Cola State) .
Il Gruppo elogiato da Durant, è sano, non ci sono per ora velate gelosie, Stephen Curry ha vissuto da protagonista la serie, ma nel post-gara è stato defilata, forse in cuor suo contento di non essere pressato come il capobranco. “Sono felice per Kevin, da oggi si può definire un campione”, ha dichiarato il capitano con una battuta ironica ma senza malinteso retropensiero. Il problema adesso è il ricevimento alla Casa Bianca perchè Steve Kerr l’inquilino non piace, dietro l’angolo la battaglie dei nuovi contratti. Durant è free-agent e quindi sul mercato, non è escluso che teoricamente possa andare da un’altra parte vista la carica che gli ha dato l’accusa di tradimento dei Thunder. E capitalizzerà questo risultato per non essere secondo a LeBron anche in questo, anche se lui non è schiavo degli enormi interessi e dello status symbol e spesso passa le vacanze assieme alla madre per visitare città e musei. Lo definii l’uomo che gioca in frack dopo la vittoria del mondiale 2010 in Turchia (dove Curry era riserva e non giocava mai) e questa sensazione l’ho provata anche ieri notte commuovendomi per l’impresa essendo il suo stile unico e affascinante sicchè da nobilitare tutto quello che fa e il contorno.